sabato, Luglio 27, 2024

Il COVID lungo e la sua fatica si complicano: salto dalla neuroinfiammazione al metabolismo cerebrale e muscolare

Durante la pandemia di COVID-19, sono stati identificati vari tipi di sequele in pazienti guariti dal coronavirus. Per riferirsi a questo fenomeno, i ricercatori hanno utilizzato la terminologia di sindrome post-COVID-19 acuta, sindrome post-COVID-19 o Long-COVID. Allo stesso modo, per essere classificati come tali, i sintomi non devono essere riconducibili ad altre cause. Tra i sintomi identificati sono state segnalate diverse manifestazioni polmonari. Ad esempio, l’alterazione della tomografia computerizzata (TC) dopo l’infezione è stata associata alla necessità di ventilazione meccanica invasiva durante la fase acuta della malattia, mentre una riduzione della capacità di diffusione del monossido di carbonio (DLCO) è una delle funzionalità polmonari più segnalate disturbi 6 mesi dopo il COVID-19.

Allo stesso modo, il COVID acuto grave è stato associato ad un aumento del rischio di sequele polmonari a lungo termine, comprese anomalie strutturali polmonari e ridotta diffusione di O2. Uno studio collaborativo tra l’Università di Concepción, l’Università di Harvard e l’Istituto MELISA, e che comprendeva la partecipazione di ricercatori di importanti istituzioni accademiche, ha cercato di identificare le sequele associate alla disfunzione polmonare a lungo termine (L-TPD) nei pazienti con COVID-19. Lo studio è stato pubblicato su Frontiers in Medicine. La coorte di questo studio era composta da 60 soggetti affetti da COVID-19 (lieve, moderato o grave), che sono stati valutati in base ai risultati della loro TAC e dell’esame DLCO a 4 mesi dopo l’infezione, per identificare i pazienti con L-TPD.

Successivamente, una volta confermata la L-TPD, sono stati identificati i principali parametri a supporto di tale condizione durante la fase acuta della patologia e a 4 mesi dall’infezione, oltre alle concomitanti conseguenze a lungo termine a 12 mesi dall’infezione da COVID-19. L’obiettivo dello studio era quello di esaminare le conseguenze tra il terzo e il quarto mese e dopo un anno dall’infezione acuta. Ci siamo concentrati su caratteristiche cliniche come comorbidità, salute mentale, salute fisica, affaticamento, funzioni cardiopolmonari e uno studio approfondito del sonno (considerando a priori che questi sistemi sarebbero stati significativamente alterati). Questa ricerca ha concluso che la disfunzione polmonare a lungo termine è associata all’età avanzata, al distress respiratorio acuto e alla presenza di ipertensione e resistenza all’insulina.

Questi pazienti, pazienti che mantengono un danno polmonare, presentavano uno stato ipossico anche fino a 12 mesi dopo l’infezione, una maggiore infiammazione sistemica che interessava la barriera endoteliale, una riduzione della risposta di fagocitosi mediata dai recettori Fc e un aumento della sindrome metabolica e dell’insulino-resistenza. Ecco perché le persone affette da long-COVID dovrebbero ricevere un trattamento definito da team multidisciplinari che cerchino il recupero graduale del paziente attraverso l’esercizio fisico, cura della salute mentale e interventi nutrizionali. E’ come se questi pazienti avessero una variante della sindrome della fatica cronica (CFS), un’ipotesi che si è fatta abbastanza strada in questi ultimi 12 mesi. L’impiego della proteomica è stato essenziale per scovare delle anomalie croniche dello studio appena citato.

Ed un altro team di scienziati ha fatto ricerca su un altro aspetto del problema: quello di utilizzare la metodica per identificare biomarkers predittivi da poter dosare facilmente nei liquidi biologici. Nell’ambito di questo studio pilota, i ricercatori hanno mirato a dimostrare la tracciabilità del metabolismo alterato mediante analisi delle urine. Sono state eseguite analisi del metaboloma delle urine per indagare la firma metabolica dei pazienti con long-COVID (n = 25) rispetto ai controlli sani (Ctrl, n = 8) e agli individui con CFS (n = 8). Sono state esaminate le concentrazioni di triptofano e fenilalanina (precursori dei neurotrasmettitori) e dei loro metaboliti a valle, nonché la loro associazione con i sintomi (fatica, ansia e depressione). Effettivamente livelli di fenilalanina erano significativamente più bassi in entrambi i pazienti Long-COVID e CFS rispetto ai controlli.

In molti pazienti con long-COVID, le concentrazioni dei metaboliti a valle del triptofano e della tirosina, come serotonina, dopamina e catecolamine, si discostavano dagli intervalli di riferimento. Diversi sintomi (disturbi del sonno, dolore o disfunzione autonomica) erano associati ad alcuni metaboliti. I pazienti che accusavano affaticamento presentavano livelli più bassi di chinurenina, fenilalanina e un rapporto chinurenina/triptofano (Kyn/Trp) ridotto. Nei pazienti con ansia sono state osservate concentrazioni più basse di acido gamma-aminobutirrico (GABA) e una maggiore attività dell’enzima chinurenina 3-monoossigenasi (KYMO). Dunque, i risultati suggeriscono che il metabolismo degli aminoacidi e la sintesi dei neurotrasmettitori sono disturbati sia nei pazienti con Long-COVID e CFS. Ma potrebbe non essere ancora il quadro completo.

Ricercatori dell’UMC di Amsterdam e della Vrije Universiteit Amsterdam hanno scoperto che l’affaticamento persistente o malessere post-sforzo (PEM) nei pazienti con Long-COVID ha un’altra causa biologica, vale a dire i mitocondri nelle cellule muscolari che producono meno energia rispetto ai pazienti sani. Allo studio hanno partecipato 25 pazienti con COVID lungo e 21 controlli sani. È stato chiesto loro di pedalare per quindici minuti. Questo test ciclistico ha causato un peggioramento a lungo termine dei sintomi nelle persone con Long-COVID, chiamato PEM. L’affaticamento estremo si verifica dopo uno sforzo fisico, cognitivo o emotivo oltre una soglia individuale sconosciuta. I ricercatori hanno esaminato il sangue e il tessuto muscolare 1 settimana prima del test ciclistico e 1 giorno dopo il test.

Le analisi di biopsie muscolari hanno fatto vedere che i pazienti con long-COVID avevano tipologie di fibre muscolari chiamate “glicolitiche lente” a basso consumo di glucosio, con una minore fosforilazione ossidativa dentro i mitocondri. Quindi il problema è proprio biologicamente chiaro. Una delle teorie sul COVID a lungo termine è che le particelle di coronavirus potrebbero rimanere nel corpo delle persone che sono guarite. Gli scienziati al momento non vedono alcuna indicazione di ciò nei muscoli. I ricercatori hanno anche osservato che il cuore e i polmoni funzionavano bene nei pazienti. Ciò significa che l’effetto duraturo sulla forma fisica del paziente non è causato da anomalie nel cuore o nei polmoni. Tuttavia, qualcosa disturba metabolicamente le centrali energetiche cellulari, ovvero i mitocondri.

Si potrebbe pensare che fare esercizio fisico potrebbe essere una soluzione vantaggiosa e incline a ripristinare una situazione più normale. Ma non è sempre così: è parzialmente appurato che l’esercizio fisico, specie intenso di recupero, non è l’opzione migliore per i pazienti con long-COVID. Sicuramente è di aiuto, specie se fatto con moderazione e sotto la supervisione di un esperto. Come visto nel quadro generale, il long-COVID è una situazione metabolica complessa che non mostra solamente disturbi immunitari e respiratori, ma anche neurochimici e del metabolismo intermedio. Come se non bastasse, ci sono anche prove precedenti che la “nebbia cerebrale” o brain fog tipica dei casi con fatica mentale, sonnolenza e stanchezza cronica, sia da imputare ad una neuro-flogosi o neuro-infiammazione.

Questa è potenzialmente risolvibile con integratori a base di biolipidi (palmitoil-etanolamide o PEA), alcuni polifenoli naturali (es. luteolina) ed eventuale aggiunta di probiotici (fermenti lattici multiceppo). Le prime due molecole naturali avrebbero azione antinfiammatoria specifica sul tessuto cerebrale, attenuando così la neuroinfiammazione in modo diretto. L’integrazione con probiotici sevirebbe a ribilanciare il microbiota intestinale, che è dimostrato essere condizionato negativamente sia nel COVID acuto che nel post-COVID. Ci si potrebbe chiedere perchè allora tutti coloro che hanno avuto il COVID non sviluppano un long-COVID con le caratteristiche tipiche. Alcuni Autori sospettano che coloro che avevano in partenza un microbiota più “in salute” (per stile di vita più sano, alimentare e non), sarebbero stati meno soggetti a sviluppare un long-COVID più grave.

E’ anche stato riscontrato che fra coloro che hanno contratto il COVID, chi praticava esercizio fisico regolare (settimanale come abitudine oppure in palestra in modalità salutistica), ha avuto un post-COVID più lieve senza troppe complicanze metaboliche e sintomatologia neurologica o muscolare. Questo indicherebbe che la sana scelta di un esercizio fisico regolare e un’alimentazione scevra da eccessi o abitudini sbagliate, possono aver concorso a mantenere il fisico e la salute intestinale in un bilancio tale da aver evitato il “lato peggiore” del COVID dopo la guarigione. Fra parentesi, la salute del microbiota intestinale è fondamentale per delle robuste difese immunitarie, come altri Autori hanno ritenuto poter aver favorito molti individui ad aver un COVID “asintomatico”.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

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Pubblicazioni scientifiche

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Taenzer M et al. Int J Tryptophan Res. 2023; 16:11786469231220781.

Henríquez-Beltrán M et al. J Clin Med. 2023 Oct 20; 12(20):6639.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998, specialista in Biochimica Clinica dal 2002, ha conseguito dottorato in Neurobiologia nel 2006. Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. In libera professione, si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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