venerdì, Maggio 23, 2025

“Ho tagliato i ponti con la mia famiglia”: fenomeno di ingratudine crescente o di liberazione cosciente?

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Tabù, rottura, dolore e senso di colpa

In molte culture l’amore filiale è sacro. Tagliare i legami con i genitori è visto come un tradimento, una trasgressione morale. La società si aspetta che i bambini perdonino e rispettino, qualunque cosa accada. Questa visione sociale molto normativa rende la decisione ancora più difficile da prendere. Lasciare i propri genitori non è mai una decisione da prendere alla leggera. Questa rottura volontaria, a lungo considerata un tabù sociale, oggi viene espressa con crescente libertà. Per molte persone dire “ho tagliato i ponti con i miei genitori” non è un capriccio o una vendetta: è un atto di sopravvivenza, una scelta di liberarsi per ricostruirsi, che dalla controparte “genitoriale” spesso non viene ottusamente capita o accettata. Nella maggior parte dei casi questa svolta non avviene dall’oggi al domani.

È il risultato di ripetute tensioni, di violenza verbale, psicologica o fisica, o anche di un costante disinteresse emotivo. Si tratta di lesioni che si accumulano durante l’infanzia, l’adolescenza e poi l’età adulta. In fasce di generazioni costruite sulla patriarcalità o la matriarcalità, il controllo della vita personale dei figli può essere completo. Ci si aspetta la totale lealtà ai genitori o ad un genitore dominante, dal quale si dipende per ogni scelta, al quale non si nasconde nulla della propria vita privata col partner o col compagno di vita, e col quale ci si consulta per ogni decisione da prendere. E parlare di decisione autonoma qui non è corretto: nella quasi totalità dei casi, dietro la frase “fai così come ti dico io, perché è meglio per te” si nasconde proprio quel controllo mentale che non pone termine a questa “catena di Sant’Antonio” iniziata generazioni prima.

Proprio dietro frasi come “fai quello che vuoi fuori con gli altri, ma la famiglia non lasciarla mai”, oppure “stai sicuro che la famiglia è l’unica che non ti tradirà mai” o ancora “noi genitori siamo quelli che sappiamo quello che è meglio per te”, si nasconde il narcisismo della trappola. Perché dietro la paura della perdita di controllo dei genitori sui “figli”, ci sta quasi sicuramente quella dei nonni sui “genitori”. E se non c’è stato qualcuno o qualcuna più ribelle alle regole fra una generazione precedente o l’altra, il meccanismo del controllo non verrà spezzato. E di narcisismo si può parlare tranquillamente quando si sente sempre ostentare dai genitori agli altri “ho tirato su un figlio (o una figlia) modello, obbediente, rispettoso/a, educato/a e con tutti i valori giusti”.

Quando poi ci si sente sicuri di scelte prese in modo autonomo e totalmente indipendenti dal parere o dall’approvazione familiare, ecco che può scattare la ritorsione genitoriale con “sei un ingrato/a, non ti meriti nulla”, “non hai imparato nulla, hai buttato al vento tutti i nostri insegnamenti” e varie altre espressioni colorite o meno che chiunque si sarà sentito dire almeno una volta nella vita dai propri genitori. Un modo spesso efficace per riportare i figli “nei ranghi”, infatti, è quello di far scattare il senso di colpa per aver trasgredito un comando gerarchico, (che nulla ha di gerarchia) al posto di una libera scelta che può implicare anche una crescita personale dell’individuo nel mondo che lo attenderà, o per pura e semplice gratificazione per accrescere la propria autostima.

Contrariamente a quanto si pensa, questa decisione non spetta solamente a giovani adulti. Anche le persone tra i 40, i 50 e persino i 60 anni scelgono di porre fine alle relazioni tossiche con i propri genitori. Questo fenomeno non è limitato a una sola fascia d’età; attraversa le generazioni, con storie di dominazione, abusi o semplicemente indifferenza emotiva o anaffettività. I social media, in particolare TikTok e Instagram, hanno contribuito a rendere più aperto questo dibattito. E sempre sui social media, nei circoli terapeutici o attraverso testimonianze rese pubbliche, le persone stanno esprimendo la loro opinione. Hashtag come #NoContact raccolgono migliaia di storie, spesso di donne, che descrivono lo stesso percorso di dolore, consapevolezza e liberazione.

Ricostruire al di fuori del modello familiare

La decisione di lasciarsi spesso arriva dopo che molti tentativi di dialogo, compromesso o terapia familiare hanno fallito. Guardando trasmissioni come “C’è posta per te” dove, una volta i genitori, un’altra volta i figli, vengono a implorare la ricongiunzione, a questa redazione scientifica viene da chiedersi se questa non sia una rivelazione sintomatica del problema che cova in seno alla società da sempre, al di là del portare avanti un palinsesto di intrattenimento. E non ci si sente di criticare i figli che ostinatamente sbattono in faccia quel “no” secco di rifiuto, non sapendo realmente cosa si nasconde dietro quel no.

Se si fa fede a quello che si sente in giro ed alla coscienza di possibili lettori di questo articolo, che potrebbero anche essere passati da esperienze del genere, dare dell’ingrato a quel figlio o figlia che si ostinano a dire “no” additando i genitori come responsabili della crisi matrimoniale, anche di fronte alle loro lacrime, potrebbe non essere il giudizio giusto. Per la maggior parte, la rottura è soprattutto un atto di protezione: un modo per stabilire confini dove non ne erano mai esistiti. Almeno il 50% delle coppie spostate che divorziano hanno una storia di superamento dei confini “matrimoniali” da parte di quelli “genitoriali”.

Che sia la famiglia dello sposo o della sposa ad essere operativa del danno non importa: far spuntare aspetti di controllo genitoriale sulla relazione coniugale non è sano e nella stragrande maggioranza dei casi fa emergere delle “tossicità” emotive ed affettive, che nulla hanno di costruttivo per la felicità coniugale. La coppia litiga o si confronta senza via di uscita, per uno dei coniugi che dichiara l’intromissione inopportuna della famiglia dell’altro, mentre il secondo difende la scelta fatta non accorgendosi magari realmente dell’errore, perché è abituato a vedere intromissioni del genere come “legittimate” da quel senso di protezione e di gestione “privata” a come è stato sempre abituato.

Rompersi per esistere pienamente

Ma una volta tagliati i ponti, inizia il lavoro di ricostruzione. Terapia individuale, gruppi di sostegno, lettura, sviluppo personale: gli strumenti per riprendersi dalla rottura di una famiglia sono vari, ma essenziali. Si tratta di decostruire lealtà inconsce, di ripensare la propria identità senza il controllo dei genitori e, soprattutto, di imparare a vivere senza cercare costantemente la loro convalida. Questo approccio a volte consente di ricostruire altri legami, scelti e più sani. Tagliare i legami con i genitori non cancella le ferite del passato; può aprire la strada, tuttavia, a un’esistenza più allineata, più serena con sé stessi e pacifica anche con le relazioni interpersonali. Per molti, questo consente loro di uscire dal ciclo di riproduzione della sofferenza e di creare una nuova storia personale.

Alcune persone si ricongiungono dopo anni di lontananza, una volta guarite le ferite. Altri restano in silenzio, senza odio, ma con lucidità. Ciò che conta, in ultima analisi, è il diritto di scegliere il rapporto che si vuole – o non si vuole – avere con la propria famiglia. Dire “ho tagliato i ponti con i miei genitori” significa affermare una decisione intima, spesso dolorosa, ma profondamente liberatoria. Si rifiuta di soffrire “in nome della famiglia”. In una società che attribuisce sempre più valore alla salute mentale e al rispetto di sé, questa scelta trova finalmente legittimità e, soprattutto, un ascolto. E’ pure dichiarato nella Genesi che questa deve (o dovrebbe) essere la via normale: “L’uomo lascerà suo padre, la donna lascerà sua madre, i due si uniranno e saranno una cosa sola”.

Ma questa è un’altra storia.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, MD, PhD.
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la Clinica Basile di catania (dal 2013) Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania (del 2020) Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna dal 2024. Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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