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Solitudine: una malattia immuno-metabolica che può diventare anche un vantaggio evolutivo

In quanto creature sociali, il nostro bisogno di interazione sociale, supporto sociale e stimoli sociali dovrebbe essere soddisfatto adeguatamente affinché possiamo sentirci bene e vivere una vita sana. Tuttavia, la presenza oggettiva di questi costrutti sociali non sempre equivale al sentimento di appartenenza; questo sentimento di appartenenza o integrazione sociale, piuttosto, deriva dall’impatto psicologico e dalla percezione individuale delle relazioni e delle interazioni sociali, e se per qualsiasi motivo l’individuo non si percepisce come uno che appartiene, nasce il sentimento di solitudine. La solitudine è stata definita come un incontro angosciante, vissuto quando il bisogno di intimità umana non è soddisfatto adeguatamente, o quando la rete sociale di una persona non corrisponde alle sue preferenze, né in numero né in attributi. Questa definizione ci aiuta a capire che la causa della solitudine non è semplicemente l’essere soli, ma piuttosto il non essere in compagnia che desideriamo; ciò significa che il sentimento di solitudine e lo stato di isolamento sociale sono fenomeni intrinsecamente diversi.

In altre parole, la solitudine si manifesta solo con la percezione di essere soli, nonostante le relazioni interpersonali, o la loro mancanza. In quanto esperienza soggettiva, la solitudine può riflettere le differenze nei modelli di pensiero, comportamento e reazioni situazionali tra le persone. Con l’influenza fondamentale della personalità sull’emergere del sentimento di solitudine, le differenze individuali e culturali nei meccanismi di coping e in quello che è considerato uno stato relazionale sociale soddisfacente, insieme, giocano un ruolo dominante nel prevedere la solitudine e nel trovare modi per mitigarla. durante la progettazione o l’implementazione di strategie di intervento. Sono stati suggeriti tre principali percorsi patologici per le conseguenze della solitudine, vale a dire comportamenti di cattiva salute, maggiore risposta allo stress e riparazione fisiologica inadeguata. Attraverso il primo percorso, la solitudine rende le persone più inclini a comportamenti come il fumo, la minore attività fisica e il sonno ancora più scarso.

Gli ultimi due percorsi, vale a dire l’aumento della reattività allo stress e l’interruzione del mantenimento fisiologico, sono stati oggetto di indagini più specifiche. Lo stress e i fattori di stress psicologico possono essere visti da due prospettive; l’esposizione ad essi e il modo in cui vengono percepiti. I fattori di stress psicologico sono fisiologicamente percepiti come minacce e possono attivare a livello neurale il sistema nervoso simpatico (SNS) e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA). Questi due sistemi possono quindi causare una risposta infiammatoria. La solitudine come fonte di stress percepito, influenza i processi infiammatori innescando una cascata di stress fisiologico. In un contesto acuto, l’attivazione del SNS, inizialmente, innesca il sistema immunitario, poiché mobilita i leucociti nel sangue. Inoltre, il ritiro vagale indotto dallo stress consente l’attività infiammatoria dei macrofagi tissutali. Un altro effetto dei fattori di stress psicologico acuto è il rilascio centrale di interleuchina-1 beta (IL-1), che attiva direttamente l’asse HPA.

Ciò alla fine porta al rilascio di glucocorticoidi, ad esempio cortisolo. I glucocorticoidi inibiscono il rilascio di IL-1 cerebrale, contenendo e riducendo l’infiammazione, ma aumentano la produzione di IL-6, inducendo di conseguenza reagenti epatici di fase acuta, ad esempio la proteina C-reattiva (PCR), minimizzando il danno cellulare. Parallelamente, il cortisolo aumenta il rilascio del fattore inibitorio della migrazione dei macrofagi (MIF) da parte dei macrofagi; e di conseguenza ridurre la sensibilità delle cellule immunitarie agli effetti antinfiammatori dei glucocorticoidi. Sfortunatamente, promuovono anche il rilascio di TNF-alfa, sostenendo un’infiammazione di basso grado in un contesto di stress cronico. Sebbene nella solitudine ci siano livelli più elevati di glucocorticoidi circolanti, molte cellule immunitarie formano un’insensibilità nei loro confronti, che può essere mediata dalla produzione di MIF, portando infine a effetti antinfiammatori sostanzialmente inferiori dei glucocorticoidi, ad una maggiore suscettibilità all’infiammazione e alle condizioni correlate con esso negli individui solitari.

Sebbene la risposta allo stress sia condivisa tra gli esseri umani, varia in entità da individuo a individuo e quindi le persone reagiscono in modo diverso ai fattori di stress psicologico. Le persone sole sono più inclini a percepire gli eventi regolari come stressanti, rispetto alle persone che non sono sole. Ciò è evidente nel modo in cui i fattori di stress sociale possono portare a livelli più elevati di citochine infiammatorie, nel sangue e nel cervello, rispetto alle circostanze personali e ambientali delle persone; tale che le persone sole mostrano un aumento maggiore, portando così ad una maggiore risposta infiammatoria. Questo stato di infiammazione può essere un vantaggio per la sopravvivenza, poiché l’isolamento aumenta la possibilità che l’individuo venga attaccato o ferito, senza protezione dagli altri L’infiammazione prepara il corpo a sopportare biologicamente ogni possibile danno, il che è favorevole da un punto di vista evolutivo. In altre parole, l’infiammazione dei solitari rende l’individuo più sensibile alle esperienze negative, vedendole come minacce e aiuta l’individuo potenzialmente a evitarle.

Processi riparativi come la guarigione delle ferite si sono rivelati difettosi di fronte allo stress. Come accennato in precedenza, il sonno, che è il comportamento ristoratore più basilare, è significativamente influenzato nelle persone sole, portando ad un rischio maggiore di malattie cardiometaboliche. Con queste tre principali vie di patogenesi, la solitudine può causare molti danni; attraverso processi metabolici mediati da fattori immunologici che portano ad una risposta infiammatoria. Poi, invece, ci sono coloro che sanno gestire bene la loro solitudine e che non vanno incontro ad alcun problema di salute, rimanendo longevi, vitali, attivi ed autosufficienti fino in tarda età. Per la biologia dell’invecchiamento, questo può dipendere dall’adozione permanente di un corretto quanto semplice stile di vita. Lo scegliere di stare lontani dall’urbanizzazione, dall’uso di voluttuari come alcolici o fumo può contribuire, ma sembra che il carattere delle persone solitarie che restano in salute abbia delle peculiarità rispetto a chi resta solo per fattori esterni.

Rimanere soli e bene con sé stessi può anche essere frutto di una lunga e sofferta elaborazione interiore, non necessariamente legata a traumi, delusioni o sofferenze del passato. Ci sono individui che, per loro natura, stanno bene con sé stessi senza un partner, con amici occasionali e che possono scegliere di dialogare con chiunque come, invece, tenere un animale da compagnia in casa e trascorrere la loro vita lontano da quasi tutti. Può esserci anche una componente spirituale in tutto ciò. Il solitario è decisamente più riflessivo della persona ordinaria, può aver sviluppato una sua spiritualità ignota al mondo esterno e non sapremo mai cosa ci sta realmente dietro un solitario “volontario”. Bisognerebbe capire come dialogano cuore e mente in questi individui. Ma non c’è fisiologia, né neurochimica, né etologia, né biochimica del metabolismo, né speculazione psicologica sufficiente a decifrarlo.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998, specialista in Biochimica Clinica dal 2002, ha conseguito dottorato in Neurobiologia nel 2006. Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. In libera professione, si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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