sabato, Luglio 27, 2024

La vitamina D nella fatica e le sue sindromi: cosa ha trovato la scienza a riguardo?

Vitamina D e salute umana

Studi precedenti hanno associato la vitamina D al metabolismo osseo. Tuttavia, venti anni fa la ricerca ha indicato il coinvolgimento della vitamina D nei processi fisiologici degli esseri umani, influenzando potenzialmente la fisiopatologia dei disturbi cardiovascolari, dei disturbi reumatologici, del diabete, della neurodegenerazione, della fertilità, delle condizioni legate all’affaticamento e del cancro. I recettori della vitamina D sono presenti principalmente dentro le cellule e regolano l’espressione genica legando direttamente il DNA. Questa nozione è nota sin dagli anni ’70. Poco più di vent’anni fa, invece, sono stati identificati dei potenziali recettori della vitamina D a livello di membrana. Ci sono dati ancora contrastanti se questi siano una variante del recettore nucleare che si àncora alle membrane, oppure se è una forma diversa di proteina.

In modo analogo agli ormoni estrogeni ed androgeni, che hanno le loro azioni rapide (non-genomiche) dipendenti da recettori di membrana, anche la vitamina D sembra avere azioni biologiche analoghe. Non ci sono molti dati sugli effetti della vitamina D sui muscoli e sui problemi muscolari. Un sintomo che si associa comunemente alle malattie muscolari è la fatica o affaticamento, che viene generalmente considerata a partenza dalle proteine muscolari, dallo stato nutrizionale, dal suo metabolismo o dalla presenza di malattie genetiche (es. distrofie) o metaboliche (es. il diabete). Un’ultima revisione, per fare il punto su questo argomento, si è incentrata sulla mitigazione della fatica grazie alla vitamina D, basata sui record dei database Web of Science, Scopus e PubMed.

La vitamina D regola l’affaticamento controllando l’infiammazione e neurochimica

La vitamina D regola la fisiopatologia della fatica associata a variabili biochimiche come fattori di stress ossidativo e citochine infiammatorie. La vitamina partecipa a vari processi come le reazioni redox, la formazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il funzionamento mitocondriale. L’attivazione della vitamina D aumenta durante lo stress cellulare e l’integrazione può migliorare le funzioni mitocondriali dei muscoli scheletrici diminuendo lo stress ossidativo. Un primo meccanismo di controllo sullo stress ossidativo si esercita attraverso il suo recettore nucleare (VD3R) che agisce assime a quello orfano dei retinoidi (RXR-a), diminuendo l’attività genetica del fattore nucleare kappa B (NF-kB), che controlla l’espressione di enzimi infiammatori come la NO-sintasi inducibile (iNOS) e la cicloossigenasi-2 (COX-2).

Una seconda modalità con cui la vitamina modula lo stress ossidativo è quella dell’asse del fattore nucleare eritroide 2 / coattivatore correlato gamma 1 ai recettori perossisoma / alfa-sirtuina 3 (Nrf2/PGC-1/SIRT-3), promuovendo i processi trascrizionali di Nrf2 e PGC-1l’attività antiossidante sovraregolando i geni associati. La vitamina D regola anche Klotho, una proteina che esercita effetti anti-aging aumentando la tolleranza allo stress ossidativo e prevenendo la sovrapproduzione di ROS. Attraverso meccanismi ancora poco compresi, l’azione del recettore della vitamina D (VD3R) si esercita non solo sulla trascrizione genica vera e propria, ma anche sull’epigenetica, ovvero quei meccanismi chimici (acetilazione, metilazione) attraverso i quali molte proteine nucleari decidono quali geni devono “accendersi” o “spegnersi”.

La vitamina regola anche le funzioni immunologiche e i processi infiammatori, con una relazione causale tra infiammazione e vitamina D, promuovendo azioni antinfiammatorie da parte di citochine come l’interleuchina (IL)-4, 5 e 10 ed effetti diretti sulle cellule immunitarie. Inoltre, riduce i livelli di citochine infiammatorie come l’IL-2, il fattore TNF-alfa e l’interferone gamma (IFNγ). La vitamina D attiva può alterare gli epigenomi delle cellule immunitarie, in particolare quelli dei monociti (e dei loro sottotipi), riducendo la differenziazione dei linfociti T helper Th1 e migliorando il rilascio di citochine infiammatorie. Infine, la vitamina D regola la sintesi di neurotrasmettitori legati all’affaticamento come la serotonina e la dopamina e sovraregola i fattori di crescita come il fattore di crescita nervoso (NGF), il fattore neurotrofico derivato dalla linea cellulare gliale (GDNF) e la neurotrofina-3 (NT-3).

Vitamina D e affaticamento nelle malattie reumatologiche, neuropsichiatriche e muscoloscheletriche

Livelli sierici di vitamina D inferiori a 20 ng/ml indicano carenza, mentre quelli compresi tra 21 e 29 ng/ml indicano insufficienza. Un consumo giornaliero di 600-800 UI di vitamina fornisce una salute ottimale delle ossa, ma è necessaria un’assunzione giornaliera di 1.000-2.000 UI per mantenere i livelli plasmatici superiori a 30 ng/ml. L’ipovitaminosi cronica D è associata a malattie cardiovascolari e disfunzione metabolica e potrebbe rappresentare una comorbilità significativa o un fattore di rischio per la mortalità precoce. Diversi studi hanno trovato associazioni inverse tra carenza di vitamina D e riduzione della mortalità per tutte le cause e del rischio di cancro. I dati attuali sulle conseguenze della lotta all’ipovitaminosi D sono contraddittori e indicano che potrebbero essere coinvolte altre variabili.

La fibromialgia, un disturbo doloroso sistemico e persistente con il sintomo più comune della fatica, è la fonte primaria di questa insufficienza. I ricercatori hanno collegato l’ipovitaminosi D a un miglioramento dell’affaticamento fibromialgico, con risultati promettenti sul miglioramento di numerosi criteri ACR della fibromialgia e del sintomo di “affaticamento cronico”. La fatica è un denominatore comune in molte malattie autoimmuni. I ricercatori sostengono un test della vitamina D nel plasma nei pazienti con sintomi di affaticamento poiché bassi livelli di vitamina D nel sangue sono frequenti in questi individui; e il trattamento ha portato a una significativa diminuzione della gravità dell’affaticamento. C’è anche da considerare che nella fibromialgia c’è anche l’intervento del microbiota intestinale, che ha ripercussioni neurochimiche.

Quindi, il fatto che la vitamina D migliori la fatica cronica nella fibriomialgia potrebbe essere dipendente dagli effetti antinfiammatori e regolatori sul metabolismo di serotonina e dopamina, come detto sopra, ma potrebbe anche dipendere dai suoi effetti sul microbiota intestinale. La scienza non sa ancora rispondere a questa domanda, anche perché i batteri non possiedono recettori per la vitamina D, a meno che gli scienziati non siano consapevoli che qualche proteina batterica abbia questa capacità. Il contributo del microbiota negli effetti della vitamina D sulla fibromialgia è ancora in fase di studio, ma sicuramente può dipendere dagli effetti immunologici di questa vitamina e sulle influenze che il microbiota ha sulla sorveglianza e la reattività immunitaria. Dopotutto, una componente immunitaria nella fibromialgia è stata provata.

Il VDR e gli enzimi coinvolti nell’idrossilazione della vitamina D sono ampiamente espressi in varie cellule immunitarie e tessuti cerebrali, comprese le cellule dendritiche, i macrofagi, i linfociti, le cellule endoteliali cerebrali, i periciti delle meningi, i neuroni, gli astrociti e la microglia distribuiti in tutto il sistema nervoso centrale, comprese aree come il corteccia, regioni limbiche (amigdala, ippocampo e ipotalamo), materia grigia profonda (talamo, gangli della base e nucleo accumbens) e la substantia nigra. Questa distribuzione diffusa evidenzia il loro ruolo critico sia nelle funzioni immunologiche che neurologiche. La vitamina D è associata alla regolazione genetica correlata alla neuroplasticità e alla neuroprotezione. La ricerca preclinica ha indicato che c’è un malfunzionamento nel trasporto di neurotrasmettitori come il glutammato e il GABA in caso di vitamina D bassa.

Questo potrebbe correlarsi an che all’ipereccitabilità neuronale di situazioni mediche come l’epilessia, l’ADHD e alcune forme di autismo. Il problema del Long COVID neurologico (neuro-COVID) è un’altra emergenza sanitaria che ha in valutazione il potenziale uso della vitamina D. Sebbene i meccanismi precisi alla base delle complicanze neuropsichiatriche del COVID lungo non siano ad oggi completamente chiariti, gli effetti lesivi sulle cellule cerebrali, la neuro-infiammazione, la trombosi, la compromissione microvascolare cerebrale con conseguente minore ossigenazione cerebrale, della barriera emato-encefalica e dei neurotrasmettitori sono risultati evidenti. Accanto a questi eventi, ci sarebbero anche l’infiammazione sistemica e alterazioni del sistema renina-angiotensina-aldosterone legati a conseguenze neuropsichiatriche a lungo termine.

La vitamina D può esercitare potenziali effetti benefici sulle risposte antinfiammatorie, sulla neuroprotezione, sulla neurotrasmissione delle monoammine, sull’integrità della barriera emato-encefalica e dei vasi cerebrali, sul microbiota intestinale in diverse fasi dell’infezione da SARS-CoV2, agendo attraverso percorsi sia genomici che non genomici, attraverso una proteina legante gli steroidi a risposta rapida associata alla membrana (la proteina disolfuro-isomerasi A3, PDIA3). L’espressione di PDIA3 nel cervello, in particolare nelle regioni critiche per la funzione neurocognitiva, è di ordini di grandezza maggiore della sua espressione nel fegato e nei reni. I meccanismi molecolari della vitamina D e dei suoi metaboliti nei percorsi genomici e non genomici in vaste aree del cervello forniscono una base per comprendere le loro funzioni neuropsichiatriche cruciali.

Parimenti, decifrare i meccanismi con cui la vitamina D regola le funzioni cerebrali deposte alla coordinazione motoria, può dare informazioni indirette su come questa vitamina può influenzare la fatica cronica che si verifica nei pazienti con Log-COVID. Reports recentissimi indicano che nei muscoli dei pazienti c’è effettivamente una sofferenza cellulare legata a difetti dell’utilizzo del glucosio, con una certa sofferenza dei mitocondri. La vitamina D può regolare la biogenesi di questi organelli attraverso il dialogo con il regolatore PGC-1 (citato sopra). Maggiore presenza di mitocondri significa maggiore produzione energetica. Quindi, di riflesso, la vitamina D potrebbe correggere questo aspetto della fatica associata al post-COVID. Si tratterebbe di una possibilità semplice, sicura ed economica, dato che glia integratori a base di vitamina D sono ampiamente prescritti per altre ragioni.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD; specialista in Biochimica Clinica.

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Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998, specialista in Biochimica Clinica dal 2002, ha conseguito dottorato in Neurobiologia nel 2006. Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania. In libera professione, si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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