Gli alimenti ultraprocessati o UPF vengono creati attraverso vari processi industriali per aumentare l’appetibilità dei prodotti alimentari e prolungarne la durata di conservazione. Tuttavia, i processi e gli ingredienti utilizzati per produrli ne riducono significativamente il profilo nutrizionale, poiché spesso contengono alti livelli di zucchero, olio e altri additivi come emulsionanti e aromi artificiali. Il sistema NOVA classifica tutti gli alimenti e i prodotti alimentari in quattro gruppi in base al grado di lavorazione industriale utilizzato durante la loro produzione. Gli alimenti del gruppo NOVA 1 sono non lavorati o minimamente lavorati, mentre il gruppo 2 include tutti gli ingredienti che hanno subito una lavorazione industriale, come oli, grassi, zucchero e sale, che possono essere utilizzati per preparare, condire e/o cucinare gli alimenti del gruppo 1.
Il gruppo NOVA 3 include i prodotti alimentari dei gruppi 1 e 2 che hanno successivamente subito metodi di conservazione come l’inscatolamento, l’imbottigliamento o la fermentazione analcolica. Gli UPF sono classificati come alimenti del gruppo NOVA 4. Gli UPF attualmente contribuiscono a oltre il 50% dell’apporto energetico totale negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito. Questa tendenza globale al rialzo continua a crescere, con l’accelerazione delle vendite di UPF anche in altre nazioni come l’Australia e i paesi dell’Europa occidentale. Il consumo di UPF è stato ampiamente studiato per il suo ruolo nell’aumento del rischio di malattie non trasmissibili come malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e morbo di Crohn. Tuttavia, non è ancora chiaro in che modo il consumo di UPF possa influire sullo sviluppo della psoriasi.
Uno studio pubblicato molto di recente ha esplorato le differenze nell’incidenza della psoriasi in base al consumo di UPF, basandosi sul sistema di classificazione NOVA. Sono stati inclusi nell’analisi oltre 120 mila partecipanti di età tra 40 e 69 anni. I ricercatori hanno determinato l’associazione tra il rischio di psoriasi di nuova insorgenza e l’assunzione di UPF, analizzando il ruolo dell’infiammazione e dell’indice di massa corporea (BMI). Gli individui che consumavano più UPF avevano maggiori probabilità di essere uomini bianchi più giovani con un BMI più elevato, una minore attività fisica abituale e una storia di tabagismo attuale o pregresso. Anche l’apporto energetico tra questi partecipanti allo studio era più elevato. Il consumo di UPF è stato suddiviso in quattro quartili diversi, dove il primo quartile rappresenta il gruppo di riferimento o più basso.
Dopo un periodo di follow-up mediano di 12 anni, il rischio di psoriasi era del 7% più alto nel secondo quartile di assunzione di UPF rispetto al gruppo di riferimento. Il rischio di psoriasi ha continuato ad aumentare con l’aumento dei tassi di consumo di UPF, con un rischio maggiore del 19% e del 23% rispettivamente tra gli individui del terzo e del quarto quartile. Per ogni aumento del 10% del consumo di UPF, il rischio di psoriasi è aumentato del 6%. Tra i soggetti con un rischio genetico aumentato di psoriasi, un maggiore consumo di UPF ha portato a un rischio quasi triplo di sviluppare psoriasi rispetto a quelli con un basso rischio genetico e un basso consumo di UPF. Dopo aver corretto i dati per età, sesso, BMI, fumo e alcol, attività fisica e deprivazione socioeconomica, non è stata osservata alcuna variazione significativa in queste associazioni.
Il punteggio di infiammazione (INFLA) ha contribuito per il 6,5% all’associazione tra rischio di psoriasi e assunzione di UPF, mentre l’IMC ha mediato il 30,5% di tale rischio. Queste osservazioni concordano con studi precedenti che riportano un aumento dei tassi di obesità, che aumenta in modo indipendente il rischio di incidenza e gravità della psoriasi, associato al consumo di UPF. Il consumo di UPF porta anche a un’infiammazione alimentare e intestinale di basso grado (flogosi cronica silente), aggravata dalla concomitante riduzione del consumo di alimenti freschi e/o non trasformati con benefici antinfiammatori (specie frutta e verdura ricche di polifenoli). Quando gli UPF sono stati sostituiti con alimenti di categoria 1, il rischio stimato di psoriasi si è ridotto del 18%.
Ma c’è di più: prove sostanziali implicano il coinvolgimento degli UPF anche nei disturbi di salute mentale. In una ultima indagine pubblicata, i ricercatori hanno esaminato le associazioni tra l’assunzione di UPF e le relative firme metaboliche e i disturbi mentali. Sono stati utilizzati i dati della United Kingdom Biobank (UKB), un’ampia coorte di oltre 500.000 partecipanti con ampie informazioni su dati sociodemografici fattori biologici e stile di vita. Lo studio ha coinvolto 15.262 partecipanti, di cui l’86% donne. L’età media era di 33 anni. Sono stati identificati 91 metaboliti “firma”, che comprendevano diverse categorie biochimiche, tra cui acidi grassi, lipoproteine, metaboliti correlati al glucosio e aminoacidi.
I partecipanti con un elevato consumo di UPF presentavano un rischio maggiore di disturbi mentali generali, disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disturbi da uso di sostanze rispetto a quelli con un basso consumo di UPF. Inoltre, un maggiore consumo di UPF era associato a un rischio più elevato di vari sintomi di salute mentale, tra cui ideazione suicidaria, ansia e insoddisfazione per la salute. Una dieta sana è stata associata a una probabilità inferiore del 16% di depressione nelle donne di età compresa tra 18 e 34 anni e del 18% tra le donne di età compresa tra 35 e 54 anni. Per le donne di età superiore ai 55 anni, l’associazione era più debole e statisticamente non significativa.
È interessante notare che le donne nella fascia di età più giovane che consumavano alimenti ad alto indice glicemico, grassi trasformati, pesce, latticini e succhi di frutta presentavano una riduzione dell’8% del rischio di depressione. Al contrario, il consumo di patatine fritte, biscotti salati, cibi fritti, pasti precotti e alimenti trasformati industrialmente, tra gli altri, che rientravano nella categoria UPF, era associato a un rischio di depressione maggiore del 21% tra le persone di entrambi i sessi tra i 18 e i 34 anni. Anche le donne di età compresa tra 35 e 54 anni presentavano un rischio maggiore di depressione a seguito dell’esposizione a UPF, con un aumento del 30% delle probabilità.
Oltre i 55 anni, le probabilità erano maggiori del 41% con il consumo di UPF. Le donne che consumavano più cibi in scatola o surgelati o bibite zuccherate avevano il 10% di probabilità in più di essere depresse. Tuttavia, il rischio era analogamente più elevato per le donne che consumavano acidi grassi omega-3 o proteine sotto forma di integratori, semi di chia o fiocchi d’avena. Le ragioni di queste associazioni inaspettate devono essere esplorate, ma potrebbero includere una causalità inversa (il che significa che la depressione potrebbe influenzare le scelte alimentari piuttosto che viceversa). In alternativa, gli individui che consumano questi alimenti potrebbero farlo a scapito di altri alimenti sani.
Queste informazioni sono un ulteriore monito degli esperti a limitare l’introito alimentare di categorie di cibo che, non a torto, spesso è etichettato come “cibo spazzatura”.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.
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