giovedì, Settembre 11, 2025

Medicina penitenziaria (1) e il problema delle tossicodipendenze: un’iniziativa americana

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L’ingresso dei cittadini nelle carceri per detenzione, traffico internazionale, spaccio o consumo di sostanze stupefacenti è una triste realtà sociale, che si associa a quella morale quando la persona che detiene stupefacenti è anche un diretto e/o assiduo consumatore. L’articolo 55 comma 1 della legge del 29.7.2005 sulla lotta alla tossicodipendenza, recita che il traffico di droga è punito con una multa e la privazione della libertà fino a un massimo di 5 anni. In caso di reato minore, l’autore può essere multato, sottoposto a limitazione della libertà o imprigionato fino a un massimo di 1 anno. Buona fetta di queste persone sono anche diretti consumatori di cannabis, eroina, cocaina e/o crack, il che li rende dipendenti da queste sostanze. L’astinenza causata dalla carcerazione è un serio problema che in Italia può essere affrontato ricorrendo ai SERD da parte dei detenuti tossicodipendenti.

L’epidemia di oppioidi rimane una sfida devastante per la salute pubblica negli Stati Uniti, contribuendo a oltre 80.000 decessi solo nel 2024. Le persone con disturbo da uso di oppioidi (OUD) sono sovrarappresentate nelle carceri rispetto alla popolazione generale. Nonostante la loro efficacia, i trattamenti sono disponibili solo in circa il 13% delle carceri statunitensi e sono spesso riservati a gruppi specifici, come le donne in gravidanza. Questo accesso limitato contribuisce all’astinenza forzata, aumentando il rischio di ricadute e overdose dopo il rilascio. Uno studio finanziato dai National Institutes of Health (NIH) americani ha rilevato che gli individui che hanno ricevuto farmaci per il disturbo da uso di oppioidi (MOUD) durante la detenzione avevano una probabilità significativamente maggiore di continuare il trattamento sei mesi dopo il rilascio rispetto a coloro che non hanno ricevuto MOUD.

Lo studio ha inoltre rilevato che ricevere MOUD in carcere era associato a un rischio inferiore del 52% di overdose fatale da oppioidi, a un rischio inferiore del 24% di overdose non fatale da oppioidi, a un rischio inferiore del 56% di morte per qualsiasi causa e a un rischio inferiore del 12% di reincarcerazione dopo il rilascio. Questi risultati sottolineano l’importanza di fornire il trattamento MOUD durante la detenzione. Pubblicato sul New England Journal of Medicine, lo studio ha analizzato i dati di 6.400 persone con probabile disturbo da uso di oppioidi, incarcerate in sette carceri della contea del Massachusetts tra settembre 2019 e dicembre 2020. Di queste, il 42% ha ricevuto MOUD durante la detenzione, mentre il 58% no. I ricercatori hanno monitorato l’adesione al trattamento, l’overdose da oppioidi, la reincarcerazione e la mortalità di tutti i partecipanti fino a sei mesi dopo il rilascio.

Per valutare l’impatto del programma pilota, il Dipartimento di Salute Pubblica del Massachusetts ha collaborato con il Massachusetts Justice Community Opioid Innovation Network (MassJCOIN) e con le carceri partecipanti per condurre uno studio completo che monitorasse gli esiti post-rilascio. I ricercatori hanno raccolto dati direttamente dai detenuti ed estratto informazioni dalle cartelle cliniche e amministrative del carcere. Questi dati sono stati integrati con il Massachusetts Public Health Data Warehouse, che collega oltre 35 database statali per monitorare il trattamento per disturbi da uso di sostanze, incarcerazione, mortalità e altri indicatori di salute pubblica. Questo collegamento ha permesso un’analisi approfondita dell’impatto del programma sugli esiti post-rilascio. Il trattamento in carcere è stato fortemente associato a esiti migliori dopo il rilascio.

Entro i primi 30 giorni, il 60,2% di coloro che hanno ricevuto MOUD in carcere ha iniziato il trattamento nella comunità, rispetto a solo il 17,6% degli individui che non hanno ricevuto il trattamento. Metà del gruppo trattato in carcere ha continuato a ricevere farmaci per almeno il 75% dei primi 90 giorni dopo il rilascio, mentre solo il 12,3% del gruppo non trattato ha fatto lo stesso. La maggior parte dei soggetti trattati in carcere ha ricevuto buprenorfina (67,9%), seguita da metadone (25,7%) e naltrexone (6,5%). Sei mesi dopo il rilascio, il 57,5% di coloro che hanno ricevuto il trattamento in carcere ha continuato a ricevere MOUD, rispetto ad appena il 22,8% di coloro che non lo hanno ricevuto. E’ un buon risultato, considerando che la grande maggioranza di coloro che escono dopo la detenzione andranno inevitabilmente alla ricerca della loro “causa”, sia per profitto personale che non.

  • A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD, specialista in Biochimica Clinica.

Pubblicazioni scientifiche

Friedman PD et al. New Engl J Med. 2025 Sep; 393:994-1003.

Harrell-Webber A et al. Health Justice. 2025 Aug 26; 13(1):53.

Taylor J et al. Amer J Prev Med. 2025 Aug 5; 69(5):108034.

Dott. Gianfrancesco Cormaci
Dott. Gianfrancesco Cormaci
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1998; specialista in Biochimica Clinica dal 2002; dottorato in Neurobiologia nel 2006; Ex-ricercatore, ha trascorso 5 anni negli USA (2004-2008) alle dipendenze dell' NIH/NIDA e poi della Johns Hopkins University. Guardia medica presso la Clinica Basile di catania (dal 2013) Guardia medica presso la casa di Cura Sant'Agata a Catania (del 2020) Medico penitenziario presso CC.SR. Cavadonna dal 2024. Si occupa di Medicina Preventiva personalizzata e intolleranze alimentari. Detentore di un brevetto per la fabbricazione di sfarinati gluten-free a partire da regolare farina di grano. Responsabile della sezione R&D della CoFood s.r.l. per la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti alimentari, inclusi quelli a fini medici speciali.

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