Con “idroterapia termale” si intende l’insieme degli interventi che usano acque minerali naturali — spesso calde e ricche di zolfo, bicarbonato, cloruri, ecc. — e, in molti contesti, anche fanghi maturati (peloidi) e vapori per scopi terapeutici. Gli effetti sono la somma di componenti fisiche e chimiche: la temperatura e la pressione idrostatica modulano dolore, tono muscolare e microcircolo; la spinta di Archimede riduce il carico articolare favorendo il movimento in persone con dolore o disabilità; i sali disciolti e composti solforati possono avere azioni lenitive cutanee e mucolitiche sulle vie aeree; l’immersione regolare, infine, agisce su sonno, umore e percezione del dolore, con un beneficio spesso “multisintomo” più che su un singolo esito clinico.
L’evidenza migliore, oggi, riguarda alcune condizioni muscoloscheletriche, la riabilitazione motoria in acqua e alcuni quadri cutanei e rinosinusali; al tempo stesso, la qualità degli studi è eterogenea e molti benefici si collocano tra piccoli e moderati, con durata in genere di settimane o pochi mesi, più solide quando l’idroterapia è integrata in programmi riabilitativi o di educazione terapeutica. Le revisioni Cochrane e sistematiche su artrosi — specie ginocchio e mano — indicano che cicli di balneoterapia e/o fango-balneoterapia possono ridurre il dolore e migliorare la funzione rispetto a nessun trattamento o a trattamenti standard, con grandezze d’effetto piccole-medie e qualche persistenza del beneficio a 3–12 mesi.
Non c’è invece prova chiara che un tipo di acqua sia superiore a un altro e il rischio di bias in molti trial storici resta non trascurabile. In pratica clinica, questi cicli sono spesso usati come “booster” periodici accanto a esercizio, perdita di peso e analgesia di base, più che come alternativa esclusiva ai percorsi raccomandati dalle linee guida. Nella fibromialgia, dove il dolore diffuso convive con disturbi del sonno e affaticabilità, l’idroterapia termale e gli esercizi in acqua mostrano benefici consistenti ma di entità contenuta su dolore, disabilità e qualità di vita; meta-analisi recenti segnalano che l’effetto può mantenersi per alcuni mesi dopo il ciclo, verosimilmente grazie alla combinazione di immersione calda, movimento de-gravato e routine strutturata in un contesto a bassa minaccia.
Anche qui la raccomandazione pratica è integrarli in un approccio multimodale con attività fisica graduale e interventi di educazione. Sul versante riabilitativo-neurologico, l’esercizio in acqua come setting riabilitativo (spesso incluso nei “percorsi termali”) ha una letteratura più robusta di quanto si pensi: meta-analisi su pazienti post-ictus documentano miglioramenti di equilibrio, velocità del cammino e funzione motoria rispetto a riabilitazione solo a terra, con ottima tollerabilità. La riduzione del carico e la resistenza uniforme dell’acqua consentono di lavorare precocemente su controllo posturale, schemi del passo e resistenza, anche in soggetti con insicurezza o dolore in carico. In altre parole, l’acqua non sostituisce la fisioterapia, la potenzia.
In dermatologia, la balneoterapia si lega spesso alla fototerapia (“balneo-fototerapia”): bagni salini seguiti da UVB a banda stretta potenziano l’effetto sulla psoriasi a placche, con efficacia documentata da revisioni e riconosciuta dalle linee guida AAD/NPF come opzione per quadri da lievi a moderati o quando si desidera ridurre carichi farmacologici sistemici. Anche senza fototerapia, bagni minerali possono lenire xerosi e prurito, ma l’entità del beneficio è inferiore rispetto alle strategie foto-/farmacologiche moderne: ha senso considerarli in programmi combinati e in fasi di mantenimento. Per le vie aeree superiori, una tradizione clinica solida in Italia e in altri Paesi sostiene cicli di inalazioni e irrigazioni nasali con acque sulfuree o sulfureo-arsenicali.
Studi randomizzati — benché non numerosissimi — mostrano miglioramenti di ostruzione, rinorrea e trasporto muco-ciliare in rinite/rinosinusite cronica rispetto a soluzioni fisiologiche, con buona tollerabilità; il razionale è l’effetto mucolitico/antiossidante dei solfuri e la detersione meccanica. Le revisioni recenti convergono su un beneficio sintomatico, pur sottolineando la necessità di trial più ampi e controlli più rigorosi. Altre applicazioni hanno basi variabili. Nella lombalgia cronica e in alcune tendinopatie l’immersione in acqua calda con esercizio mostra effetti analgesici e di miglioramento funzionale analoghi a quanto visto nell’artrosi, soprattutto se inserita in programmi di esercizio progressivo.
Per l’artrite reumatoide l’evidenza è più incerta e le revisioni sistematiche non consentono conclusioni definitive oltre al possibile sollievo sintomatico, per cui resta un eventuale complemento non sostitutivo della terapia di fondo. Nei disturbi ansioso-depressivi lievi o nell’insonnia, i dati sono preliminari ma coerenti con un miglioramento soggettivo del benessere e del sonno, che spesso accompagna i programmi termali strutturati. Un capitolo a parte meritano i fanghi maturati. Oltre al contributo termico prolungato (“impacco caldo” che riduce il dolore e favorisce il rilassamento muscolare), piccoli trial clnici randomizzati in artrosi di ginocchio e mano indicano vantaggi aggiuntivi quando il fango si associa al bagno termale rispetto al solo bagno, con effetti su dolore, funzione e (in alcuni lavori) minor ricorso ad analgesici nei mesi successivi.
Sul piano biologico, studi sperimentali hanno mostrato modulazioni di marker infiammatori e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, ma la traduzione clinica di questi segnali richiede conferme più ampie. Come si integra tutto questo nella pratica? Pensare all’idroterapia termale come “monoterapia miracolosa” porta a delusioni; considerarla invece come un modulo di un percorso multimodale — analgesia ragionata, esercizio terapeutico, educazione, eventuale fototerapia o terapie di fondo — è dove i dati sono più convincenti. Nei pazienti con artrosi sintomatica che faticano a svolgere esercizi a secco per dolore o obesità, un ciclo in acqua calda può sbloccare l’aderenza al movimento; nella fibromialgia, la struttura e la gradevolezza dell’ambiente termale aiutano a rompere il circolo vizioso dolore-insonnia-inattività.
Nel post-ictus, le sessioni in piscina terapeutica permettono di lavorare in sicurezza su equilibrio e cammino prima di trasferire i guadagni “a terra”; nella psoriasi, l’abbinamento con UVB consente talvolta di ridurre carichi sistemici o gestire fasi di mantenimento; nelle rinosinusiti croniche, i cicli inalatori possono affiancare igiene nasale e terapia medica nei periodi di stabilità. Naturalmente esistono controindicazioni: instabilità cardiaca o respiratoria, infezioni cutanee attive, ferite aperte, insufficienza venosa severa scompensata, gravidanza avanzata per bagni molto caldi, epilessia non controllata; e vanno rispettate le cautele generali di idratazione, tempi/temperature, e monitoraggio nei fragili.
In termini di aspettative, il messaggio onesto è questo: gli effetti sono reali ma di entità piccola-media, spesso cumulativi e più duraturi quando i cicli si ripetono a cadenza programmata e soprattutto quando il paziente porta “a casa” l’attività fisica e l’igiene terapeutica apprese in ambiente termale. Per decidere se proporla, ha senso pesare preferenze, accessibilità dei centri, obiettivi (ridurre dolore, riprendere movimento, migliorare il sonno, ecc.) e il profilo costo-beneficio rispetto ad alternative equivalenti. Sarebbe interessante appurare se chi sceglie questo approccio naturale alla cura dei problemi reumatici o polmonari o respiratori in genere, possa appartenere ad una fascia di popolazione che crede più all’approccio salutistico che medico ortodosso.
Sebbene questa possibilità sia reale, convivono almeno due mondi che spesso si sovrappongono—le cure termali in senso sanitario (prescritte dal medico) e il filone benessere a prevalente finalità ricreativa. In Italia e in buona parte d’Europa negli ultimi decenni si è proprio assistito a una scissione tra turismo termale “di cura” e turismo del benessere, con pubblici, motivazioni e barriere economiche diversi. Sul versante sanitario, in Italia molte prestazioni termali rientrano nei LEA: si accede con ricetta e in genere si paga un ticket nazionale, con ulteriori specifiche che le Regioni declinano nei propri portali. Questo significa che la barriera di prezzo “clinico” per il ciclo di cure è relativamente bassa rispetto a tante terapie private, pur restando a carico della persona i costi di viaggio, alloggio e il tempo da dedicare.
Non è quindi un servizio riservato ai benestanti: la copertura pubblica amplia la platea a redditi medio-bassi, specie se esenti. Il quadro è simile anche altrove in Europa: per esempio in Francia la crenoterapia è prescritta e rimborsata dalla sicurezza sociale; storicamente centinaia di migliaia di pazienti vi accedono ogni anno per patologie reumatiche come l’artrosi, il che chiarisce che non parliamo di un “lusso” per pochi ma di un tassello dell’assistenza in sistemi sanitari pubblici. Chi sono allora, in concreto, le persone che scelgono l’approccio idrotermale? Tra gli utenti “clinici” prevalgono gli adulti più anziani con problemi cronici (dolore muscolo-scheletrico, fragilità, comorbidità) che cercano sollievo sintomatico e recupero funzionale.
Studi e rassegne in ottica geriatrica lo riportano con regolarità e, in vari Paesi europei, i profili dei frequentatori dei centri termali mostrano una sovra-rappresentazione di donne e fasce d’età medio-alte. Nel filone benessere, invece, entrano in gioco disponibilità economica e preferenze di stile di vita: chi viaggia per spa & wellness tende ad avere redditi e spesa più alti, cerca ambienti di qualità, servizi accessori, e spesso integra le giornate di trattamenti con attività ludico-ricreative. I report di settore collocano il wellness tourism come mercato in forte crescita in Europa, trainato proprio da consumatori disposti a investire nel “migliorarsi” mentre si godono l’esperienza. Qui la correlazione con possibilità economiche e con l’idea di “divertirsi mentre ci si cura” è più marcata.
C’è poi una fascia ibrida: persone che hanno una condizione cronica e usano il ciclo termale come gestione sintomatica (“palliativa” in senso lato, cioè non risolutiva ma orientata al benessere), scegliendo, quando possono, stabilimenti e contesti piacevoli. La letteratura sul termalismo parla esplicitamente di integrazione fra cura e promozione della salute, segnalando che l’attrattività del contesto e l’esperienzialità non sono un vezzo, ma possono migliorare aderenza e soddisfazione. In altre parole, il “piacere” non smentisce la cura: la rende più sostenibile nel tempo, quando il bisogno è cronico. Dunque non esiste un identikit unico e la scelta idrotermale si distribuisce lungo tre assi—bisogno clinico, accessibilità economica/assicurativa e preferenza per l’esperienza.
Ad ognuno il suo: necessità, desiderio o capriccio.
- A cura del Dr. Gianfrancesco Cormaci, PhD; specialista in Biochimica Clinica, medico penitenziario.
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